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Alpinismo: intervista a Moro e Barmasse dopo la salita del Beka Brakai Chhok

Dopo la salita dell’inviolato Beka Brakai Chhok (6940m, Baltar Glacier, Karakorum, Pakistan) abbiamo chiesto a Simone Moro ed Hervé Barmasse di parlarci della loro esperienza ma anche di come hanno vissuto i recenti fatti accaduti sul Nanga Parbat e sul K2. Un punto di vista particolare di alpinisti sul “campo” alle prese con un impegnativo progetto nella stessa zona in cui sono avvenuti gli incidenti che hanno occupato per settimane i media internazionali.

48 ore di quasi non stop sull’inviolato Beka Brakai Chhok… qual è stata la cosa più bella?
Simone: la cosa più bella è stato condividere con Herve, la meta, lo stile, la tecnica e tutte le scelte durante l’azione. A partire infatti dalla rinuncia al Batura II per non fare “gare” con i koreani fino all’ultimo momento della spedizione non c’è mai stato un momento di disaccordo. Dopo 38 spedizioni posso dire che tale sintonia è cosa rara.
Hervé: sicuramente lo stile con il quale abbiamo affrontato la salita. Leggeri, veloci e soprattutto determinati, perché se non lo fossimo stati, al posto che un bivacco sopra i 6500 m. avremmo fatto dietrofront.

E la più impegnativa?
Simone: il bivacco a 6500 m in un piccolo crepaccio e con cielo sereno. E’ stata automatica, immediata e condivisa, la decisione di bivaccare, ma battere i denti tutta notte abbracciati senza tenda, sacco a pelo, fornello, cibo, nulla….. è stato duretto… Niente di eroico ma sicuramente poco ordinario.
Hervé: mi associo a Simone, sicuramente il bivacco è stato l’ostacolo più grande della salita, ma era inevitabile. Comunque oltre al freddo mi ricordo di un tramonto fantastico e di un cielo stellato altrettanto bello.

A volte in alpinismo si parla di tensione, di consapevolezza dei rischi… come avete vissuto e come avete preparato la salita?
Simone: la salita è stata vissuta senza particolari tensioni. Sapevamo tutti e due di non avere problemi tecnici su qualsiasi tipo di terreno e questa è una consapevolezza che comunque ti fa stare tranquillo. Sapevamo però che la salita non era immune da pericoli oggetivi e che era stta tentata già un paio di volte senza successo. Questo ci dava dunque la portata della salita e siamo stati sempre con le antenne dritte anche perché per l’80% della salita siamo andati in conserva o slegati. La velocità è la resistenza sono state comunque le armi vincenti della nostra salita e discesa. Siamo veramente stati il meno possibile in parete.
Hervé: molto spesso la tensione che si crea in montagna è data dal fatto che non si è abbastanza motivati per affrontare gli imprevisti e gli ostacoli che ti si pongono di fronte alla salita di una montagna inviolata o perché c’è poca sintonia con il compagno di scalata… Noi per fortuna oltre che motivatissimi siamo sempre andati molto d’accordo e dunque prima, durante e dopo la salita abbiamo fatto le nostre scelte sempre di comune accordo.

Nelle ore passate al campo base ascoltando le notizie sulla situazione al Nanga Parbat che è costata la vita a Karl Unterchircher e ha richiesto ai suoi compagni un grande sforzo per uscire dalla Rakhiot, cosa avete pensato?
Simone: eravamo informati tramite i nostri apparati satellitari e,come la maggior parte degli alpinisti, eravamo tristi per la scomparsa di Karl. Lo conoscevo davvero bene ed avevo passato qualche giornata intera con lui a pianificare qualche progetto extraeuropeo assieme. Rimarranno sogni che insieme non potremo più realizzare… Eravamo però allo stesso tempo in apprensione per Nones e Kehrer ed avevamo dato disponibilità al team di soccorso per un eventuale intervento. Siamo così rimasti più di una settimana al campo base pronti ad essere eventualmente prelevati e siamo stati contenti che i due compagni di Karl si siano praticamente tolti dai guai da soli ed aperto una grande via.
Hervé: le prime ore le ho vissute, come penso la maggior parte delle persone, in lutto per Karl. Nelle ore a seguire, il lutto ha lasciato il posto alla rabbia per come i media gestivano le drammatiche informazioni. Poi l’apprensione per Nones e Kherer ha preso il sopravvento fino al momento nel quale, la notizia del loro arrivo al campo base, ci ha fatto gioire. Sono stati formidabili.

In questi ultimi giorni cosa vi è arrivato della situazione al K2? Come l’avete vissuta e cosa ne pensate?
Simone: eravamo informati dai siti internet e dalle telefonate che facevamo ad Islamabad. Eravamo onestamente schifati per le speculazioni mediatiche, per le mezze verità, per le omissioni gravose di notizie complete, ma soprattutto incazzati con coloro (la stragrande maggioranza) che sul K2 non ci dovrebbero neppure essere stati in quei giorni e che le rogne se le sono cercate con decisioni, scelte o delegando parte di esse ad altri. Non basta piangere i morti o leccarsi le ferite. Bisognerebbe guardare i fatti fino in fondo e domandarsi seriamente tante cose circa orari di arrivo in vetta, velocità di progressione, dipendenza dalle corde fisse, dagli aiuti esterni, dell’aiuto psicologico della presenza di altri e sentire più versioni possibili (ho passato una giornata intera Domenica 10 agosto a parlare con alcuni protagonisti ed i vari tour operator delle spedizioni al K2 e ho saputo cose che non ho letto né sentito dichiarare…)
Io ed Hervè siamo andati nelle case (nella regione remota del Shimshal) dei due portatori d’alta quota morti, Karim Meherban e Jehan Baiged, abbiamo partecipato al rito comune di dolore manifestato da tutti i compagni di villaggio dei due sfortunati. Di loro si è parlato in modo troppo marginale, a volte senza neppure menzionare i nomi di costoro. Alcuni dei portatori pakistani e degli sherpa sarebbero vivi se non avessero dovuto andare ad assistere e fare da baby sitter ad alcuni “grandi” alpinisti stranieri che a volte hanno taciuto o solo sussurrato che avevano ingaggiato i loro “animali da soma” e che, alcuni, sono stati salvati e portati a casa da loro… Il K2 come qualsiasi altro 8000 e montagna del pianeta continuerà ad essere teatro di tragedie simili a quella avvenuta finché ci sarà gente irrispettosa verso sé e verso il buon senso ed i propri limiti, che continuerà a tentarla in questo modo. Possibile che nessuno abbia esaltato chi ha saputo fermarsi e girare i tacchi in tempo o chi è arrivato e sceso in orari sensati? Costoro si sono fatti pure tutto il trekking di ritorno e sono tornati a casa felici e “perdenti”. Per me sono loro gli eroi! Non tolgo nessun merito alla tenacia dei sopravvissuti, anzi a loro il mio plauso circa le loro doti di resistenza e sono felice che abbiamo potuto riabbracciare le loro famiglie, ma i Rambo li vorrei vedere solo al cinema.
Hervé: purtroppo come al solito i media hanno esagerato. Hanno reso spettacolare una vicenda drammatica, dimenticando il compito per quale i mezzi di comunicazione sono stati creati: ovvero informare la gente sui fatti senza tralasciare particolari importanti e soprattutto senza dimenticare che in montagna si muore sempre perchè l’uomo commette un errore di valutazione dei rischi o tecnico. Non esistono montagne assassine.

Entrambi, oltre che forti alpinisti, siete dei "comunicatori" dell’alpinismo. La facilità di comunicazione offerta da Internet e dai satellitari come ha influito (se ha influito) sull’alpinismo che stiamo vivendo. E voi come vi atteggiate rispetto alla "comunicazione" quando siete in spedizione?
Simone: essere un bravo comunicatore è ormai una rogna che mi dovrò grattare per molto tempo. Mi son rotto di spiegare che è una virtù e non un disgustoso vizio. C’è chi comunica il falso, in modo distorto e magari senza neppure saperlo fare, ma questo non significa che la comunicazione sia la rovina e l’orrore dell’alpinismo. Le grandi scalate ed i grandi personaggi della storia (non del quotidiano) sono quelle che si sono conosciute, lette, ascoltate, analizzate e paragonate. Chi vuol vivere l’alpinismo come esclusivo fatto personale (come la fede e gli affetti) deve essere libero e coerente nel farlo. Hanno tutto il rispetto e la mia ammirazione più autentica e sincera. Troppa gente però spaccia per ascetico il proprio agire in montagna ma poi rivendica spazi, sponsor, apparizioni. La comunicazione è solamente un bene per il nostro mondo verticale se fatta in modo autentico, competente e leale. Se invece si lascia la comunicazione alla cronaca della stampa generalista (ne abbiamo degli esempi nelle ultime settimane) non possiamo poi lamentarci degli stereotipi antichi e distorti che il nostro ambiente si porta impresso come un marchio indelebile.
Hervé: un coltello serve per tagliare una mela, ma lo si può usare anche per uccidere. Tutti i mezzi, e dunque anche quelli di comunicazione, possono esser utilizzati bene o male a seconda della nostra coscienza. Rimane a noi cercare di farne un uso corretto per far conoscere la montagna e i suoi alpinisti, non solo in occasione di una tragedia, ma anche per i suoi molteplici aspetti positivi.

Quale augurio vi sentite di fare a voi, a tutti gli alpinisti e all’alpinismo?
Simone: a me auguro di continuare a parlare, scrivere e ragionare con la mia testa e senza curarsi troppo di accattivarsi simpatie. A 40 anni ho le spalle larghe a sufficienza per guardare in faccia il mondo, il mio passato ed il mio futuro. All’alpinismo auguro una lunga vita fatta di sogni e non di numeri, di fantasia, intuizione, di cultura, di sensibilità e di obbiettività. Lo auspico ricco di personaggi “scomodi” e coraggiosi, come lo sono stati i personaggi che hanno scritto le pagine più belle della nostra piccolissima ed “inutile” storia.
Hervé: a me auguro di poter vivere la montagna come alpinista e guida alpina ancora per parecchi anni, di realizzare i miei sogni e poterli raccontare. All’alpinismo e alla montagna auguro che le grandi testate giornalistiche inizino a parlarne non solo per tragedie e lutti, ma per metterne in risalto tutto ciò che di bello si vive praticando l’arte di salire in alto, che sia su un masso di un metro, un 8000 o una semplice passeggiata in un bosco. Agli alpinisti, auguro di esser sereni con loro stessi e di trasmettere la passione per “l’Alpe” alle generazioni future.

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